Conosci Ella Frances Sanders? È un’illustratrice che ha avuto un’idea geniale: mettere in forma di immagini delle parole impossibili da tradurre in un’altra lingua, se non con una frase di varie parole (ovvero, una perifrasi). Un esempio? Poronkusena è una parola finlandese che definisce la distanza che una renna è in grado di percorrere prima di doversi riposare. E tsundoku è invece la parola giapponese che indica l’acquisto di un libro che non viene letto ma che finisce sempre sulla pila degli altri tsundoku. Curioso, no? Il libro è da poco uscito anche in italiano e ci permette di riflettere sul peso delle lingue rispetto al nostro sguardo sul mondo.
Infatti, per molti scienziati, la lingua che parliamo definisce la nostra visione del mondo. È la lingua stessa che plasma la nostra mente, che ci permette di vedere dei dettagli (come i finlandesi che si preoccupano delle loro renne) che altri parlanti non percepiscono. Si tratta di ricerche interessanti su cui ci siamo un po’ soffermati…
Apprendere una nuova lingua e avere uno sguardo sul mondo diverso…
A partire dagli Anni ’40, numerosi ricercatori si sono chiesti se la lingua che parliamo plasmi o meno il nostro sguardo sul mondo. Parlo della lingua che parliamo perché i più scettici pensano, in effetti, che si tratti invece della cultura associata a questa lingua che plasma la nostra mente, e non la lingua stessa.
Questo vecchio dibattito è staro riportato all’ordine del giorno da Panos Athanosopoulos, Professore di psicolinguistica all’Università di Lancaster (Inghilterra). Lui e il suo team si sono chiesti se una stessa persona, uno stesso corpo, potesse contenere due menti. Detto altrimenti, se un bilingue avvesse davvero due percezioni del mondo…
Un’annotazione: quandp parlo di percezione del mondo, mi riferisco soprattutto al nostro modo di comprendere il nostro ambiente. Il modo di pensare, lo stato mentale e il nostro modo di reagire rispetto a questo o quell’evento.
Due menti possono coabitare in una sola persona?
Il team di Panos Athanosopoulos si è quindi lanciato in un piccolo esperimento per verificare le loro ipotesi e soprattutto per rispondere a questa grande domanda. L’esperimento consisteva nello scoprire come dei parlanti inglesi e dei parlanti tedeschi percepissero gli eventi, per poi scoprire quale fosse l’opinione dei bilingui inglese-tedesco (cioè, se pensassero più come nativi tedeschi o più come nativi inglesi).
Tutte queste persone dovevano descrivere delle scenette viste in videoclip. La prima tappa di questo studio ha mostrato che i nativi tedeschi avevano una maggiore tendenza a precisare l’inizio, la metà e la fine dell’azione. Descrivevano un contesto e immaginavano un obiettivo per l’azione, mentre i nativi inglesi si concentravano soprattutto sull’azione stessa. Un esempio? Un nativo tedesco descriverà una scena in questo modo: “Una donna si dirige verso la sua auto”, mentre il nativo inglese si limiterà a dire: “Una donna sta camminando”.
Nella seconda tappa dell’esperimento, i nativi inglesi e tedeschi, in seguito alla visione di tre video con scene ambigue (in pratica non si sapeva granché riguardo a cosa succedeva), dovevano dire se la scena sembrasse di più una scena con un obiettivo chiaramente definito o invece non sembrasse avere nessuno scopo chiaro. Senza sorprese (concordemente con la prima tappa dello studio), i nativi tedeschi trovavano le scene ambigue più simili a scene con un obiettivo identificato al 40 % mentre ciò valeva sono per il 25 % dei nativi inglese. Di nuovo, ciò prova che i nativi tedeschi sono più probabilmente concentrati sul risultato dell’azione rispetto agli inglesi, che si focalizzano sull’azione stessa.
Lo studio è stato poi condotto su bilingui inglese-tedesco. L’idea era vedere come questi avrebbero descritto la scena: più come i nativi tedeschi (con uno scopo chiaro) o più come i nativi inglesi (descrivendo semplicemente l’azione)?. Piccola differenza: durante la visione, dei partecipanti leggevano ad alta voce una lista di numeri, sia in inglese che in tedesco. Risultato?
Quando i ricercatori si fermavano sull’inglese, i bilingue pensavano come dei nativi tedeschi mentre, quando i ricercatori si fermavano sul tedesco, i bilingui pensavano come degli inglesi (focalizzandosi sull’azione e lasciando aperto qualunque tipo di obiettivo). E quando i ricercatori, per sorprendere i bilingui, cambiavano la lingua in cui venivano letti i numeri, stranamente, anche il loro modo di pensare cambiava…
Essere bilingue è un (doppio) stato d’animo.
Il risultato di questo interessante esperimento ha quindi provato che il fatto di parlare una seconda lingua può giocare un ruolo sul nostro inconscio, e soprattutto sul nostro modo di percepire le cose, sul nostro sguardo sul mondo… Imparando una seconda lingua, impariamo anche a vedere le cose in modo diverso (cioè ad avere un secondo stato d’animo). Quindi essere bilingue significa acquistare una visione alternativa sul mondo.
Publicazione dello studio di Panos Athanosopoulos, e del suo team, in Psychological Science, marzo 2015.
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